Il fascino dell’ignoto, la psicologia della paura e il rischio della desensibilizzazione
“L’ignoto, il proibito e il macabro esercitano un richiamo potente. Ci affascina il lato oscuro dell’animo umano.”
Con queste parole la dottoressa Elisa Caponetti, psicologa e psicoterapeuta, riassume il motivo per cui milioni di persone in tutto il mondo seguono con passione i casi di cronaca nera, leggono articoli su omicidi irrisolti, guardano documentari true crime e si appassionano a serie come True Detective o Making a Murderer.
Il richiamo del crimine, della violenza e del mistero non è solo una moda culturale, ma un fenomeno radicato nella nostra psicologia più profonda. Dai racconti antichi di assassinii e vendette, fino alla copertura mediatica di casi come il delitto di Garlasco, l’umanità ha sempre avuto un’attrazione ambivalente verso il male.
True crime e cronaca nera: un successo crescente
“Ho deciso di scrivere storie true crime basandomi sulle mie indagini del passato”, dice Woody Harrelson nei panni dell’ispettore Martin Hart in True Detective. Ed è proprio vero: i racconti tratti da crimini reali raccolgono un pubblico sempre più vasto. Non è solo fiction. Sono fatti realmente accaduti, analizzati in ogni dettaglio, in un crescendo di tensione che tiene incollati allo schermo.
Un esempio lampante è il ritorno mediatico del caso Garlasco, che ha riportato in auge la morte di Chiara Poggi dopo l’emersione di nuove prove che riaprono interrogativi su chi sia il vero colpevole. Questo tipo di attenzione spasmodica a vicende drammatiche evidenzia una verità scomoda: la violenza ci incuriosisce e ci affascina.
Il fascino dell’ignoto e la rottura delle regole sociali
Secondo la dottoressa Caponetti, la spiegazione va cercata nella nostra attrazione per l’ignoto e il proibito:
“Il crimine rappresenta una rottura delle norme sociali, un’esplorazione del lato oscuro dell’animo umano che, pur inquietante, ci affascina. Ci permette di toccare con mano l’estremità della condizione umana senza subirne le conseguenze dirette”.
In altre parole, osservare da spettatori la crudeltà e l’irrazionalità di certi atti ci mette in contatto con paure primordiali – ma da una posizione di sicurezza.
Razionalizzare il caos per sentirsi più sicuri
Un altro motivo per cui siamo attratti dalla cronaca nera è il bisogno di dare ordine al disordine. Caponetti spiega:
“Analizzare i moventi, le dinamiche, le indagini, ci dà l’illusione di poter prevedere e quindi, in qualche modo, prevenire il male. È un tentativo di razionalizzare l’irrazionale per sentirci più sicuri nel nostro mondo”.
Guardare o leggere storie di crimini efferati ci consente di elaborare paure profonde legate alla morte, alla perdita e alla violenza. È un modo per affrontare indirettamente qualcosa che ci spaventa, ma che vogliamo comunque conoscere. Un’esperienza che può trasformarsi in una sorta di esorcismo collettivo.
Affrontare la paura in un ambiente controllato
Paradossalmente, molte persone guardano contenuti true crime per rilassarsi. Questo avviene perché il contesto in cui si fruisce del contenuto – sul divano di casa, con il potere di interrompere la visione – rende tutto più controllabile.
“L’esperienza di guardare questi programmi ci permette di affrontare le paure in un ambiente controllato – dice Caponetti –. Seguire le indagini, i colpi di scena, le scoperte, stimola la mente e offre un senso di soddisfazione quando il puzzle si compone”.
Come nei romanzi gialli, si cerca la verità. Ma in questo caso il brivido è amplificato dal fatto che “è successo davvero”.
L’identificazione: vittima, investigatore o omicida?
Il meccanismo psicologico dell’identificazione gioca un ruolo chiave. Nei racconti di cronaca nera, lo spettatore si immedesima nella vittima, nella sua fragilità, nel desiderio di giustizia. Ma anche nell’investigatore, simbolo di razionalità, dedizione e verità.
Secondo Caponetti:
“L’identificazione con l’omicida è rara e può indicare disagio, ma un interesse più morboso può nascere dalla fascinazione per il male e dal tentativo di comprenderne le motivazioni profonde”.
Comprendere l’assassino diventa quindi uno studio sul male, una sorta di esplorazione delle pulsioni più distruttive della psiche umana.
Il rischio della desensibilizzazione
Tuttavia, dietro a questo fascino si cela un pericolo serio: la desensibilizzazione. Quando la violenza viene raccontata quotidianamente, con dovizia di particolari, il rischio è che questa venga normalizzata.
“Le tragedie reali si trasformano in contenuto da consumare – avverte Caponetti – banalizzando la violenza e ignorando il trauma delle vittime”.
È il fenomeno della mercificazione del dolore, in cui i drammi familiari diventano spettacolo, e il dolore altrui è usato per fare ascolti o generare clic. Questo processo erode l’empatia e porta a una sorta di anestesia emotiva.
“L’intrattenimento non deve mai giustificare la violazione della dignità umana”.
Il true crime tra attrazione e responsabilità
L’attrazione per la cronaca nera non è un semplice gusto morboso, ma una finestra sulla nostra psiche, sui nostri timori, sul bisogno di capire il caos. È un modo per confrontarsi con il male, senza subirlo. Ma c’è una linea sottile tra il raccontare per comprendere e il raccontare per intrattenere a ogni costo.
Rispetto, empatia e responsabilità devono restare al centro di ogni narrazione, affinché il racconto del crimine non diventi un’ulteriore forma di ingiustizia per chi lo ha subito davvero.
Tratto da Il Fatto Quotidiano